La Diocesi riparte provando a immaginare il possibile

Nelle mattinate di martedì 29 e mercoledì 30 settembre, i sacerdoti della diocesi insieme al loro vescovo Marco Brunetti, hanno partecipato a una due giorni di formazione in Seminario, con la relazione tenuta dal professor Battista Galvagno sul tema “Immaginare il possibile”. A partire dalla situazione di crisi creatasi con la pandemia da Covid-19, Galvagno ha fatto una lettura della situazione, ma ha anche tracciato alcune piste sulle quali costruire il cammino del nuovo anno pastorale, indicando le priorità su cui puntare a livello diocesano e parrocchiale.

 

Di seguito il testo completo delle due relazioni.

IMMAGINARE IL POSSIBILE

Premesse

  1. Il titolo “Immaginare il possibile” (su cui il Vescovo ha ricamato l’articolo di presentazione di queste giornate) è preso a prestito da Papa Francesco. In un articolo-intervista comparso sulla rivista Vita Nueva del 18-24 aprile 2020 leggiamo che questo “è un tempo propizio per trovare il coraggio di una nuova immaginazione del possibile, con il realismo che solo il Vangelo può offrirci”. Noi siamo giustamente ancorati al reale (abbiamo bisogno della terra per camminare); al massimo ci spingiamo verso il probabile; a volte con la forza della fede osiamo sperare o chiedere l’impossibile. La sfida che il Papa ci prospetta è qualcosa di intermedio: provare a immaginare il possibile, qualcosa che sta tra il probabile e l’impossibile: provare a immaginare un mondo diverso, nuovi stili di vita e – perché no? – anche nuovi metodi pastorali. La fede ci impegna a credere nei miracoli, non a farne!

Nel nostro sguardo sulla realtà ci può ispirare la preghiera del teologo americano Reinhold Niebuhr, citata ultimamente da un economista-politico laico come Mario Draghi, nel suo bellissimo intervento di apertura del Meeting di Rimini: Signore, “Dammi la serenità per accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare, e la saggezza di capire la differenza”.

  1. Dal momento che tra poco dovrò citare dati non molto consolanti e dovremo analizzare una situazione per molti versi preoccupante, vorrei che provassimo a ragionare insieme sempre con un pizzico di ironia e con il sorriso sulle labbra, come suggerito da don Milani nella lettera ad un confratello “deluso e arrabbiato”: “Se la scoperta del male deve prendere tanto posto nella nostra vita da non saper più guardare con un sorriso divertito e affettuoso tutte le cose buone che pur esistono nel mondo e nella Chiesa, allora tanto valeva non scoprirlo. Rovistiamo dunque negli errori di casa nostra solo quel tanto che basta per non ripeterli noi, quel tanto che basta per contribuire senza falsa umiltà all’istruzione dei nostri confratelli… Ma dopo aver ottenuto questi due scopi basta… ci si può fare sopra anche una risata divertita. Se prendiamo solo il volto tragico della catastrofe vuol dire che non crediamo in Dio e nella Providenza” (Barbiana, 20/5/59).

Parte prima: analisi della situazione

il Covid

Per immaginare il possibile dobbiamo partire dal reale e la realtà più rilevante e sconvolgente degli ultimi mesi è stata certamente la pandemia di Covid-19. Non si contano le immagini che sono state usate per esprimere cosa ha rappresentato il Covid per il mondo e per la Chiesa. Secondo Antonio Spadaro, Direttore della Civiltà Cattolica, solo Papa Francesco ne ha proposte sette: la barca, la notte, la discesa nel sottosuolo, il ruolo dei poeti sociali, l’unzione con l’olio della consolazione, la finestra, la pandemia come metafora dei mali del mondo (La Civiltà Cattolica, n. 4080). C’è chi ha parlato di un uragano che lascia dietro di sé macerie e chi, come la teologa Stella Morra ha usato l’immagine della bassa marea, che fa affiorare i rifiuti depositati sul fondo del mare. La chiave interpretativa più comprensiva rimane però, a giudizio unanime, il gioco di parole usato da Papa Francesco al Convegno di Firenze, nel discorso ai delegati: quello che stiamo vivendo non è una semplice “epoca di cambiamento”, ma un vero e proprio “cambiamento d’epoca” (10 Novembre 2015).

Io vorrei esprimere questo cambiamento d’epoca con un’immagine che ho usato tante volte per inquadrare il corso della storia, in particolare della storia della salvezza: l’immagine del vortice. La storia è come un torrente impetuoso che scorre a valle, seguendo in itinerario tortuoso, in cui però la direzione è chiaramente identificabile. Ma ogni tanto si formano dei vortici: se noi ci fermiamo ad osservare un vortice, vediamo che l’acqua torna indietro, per un tratto più o meno lungo, a seconda dell’ampiezza del vortice stesso, per poi riprendere il cammino verso valle. Noi siamo dentro questo vortice, forse stiamo tornando davvero indietro, quello che è certo è che facciamo fatica a vedere la direzione di marcia, anche per via del capogiro.

Attenzione però: se non si esce dal vortice, si rischia di affondare. Per questo l’immagine del vortice mi richiama alla mente un monito del filosofo Emanuele Severino, raffinato e discusso intellettuale, senza peli sulla lingua, morto poco prima dello scoppio della pandemia: “L’Occidente è una nave che affonda, su cui tutti ignorano la falla e lavorano assiduamente per rendere comoda la navigazione e dove non si vuol discutere di problemi immediati. Ma la vera salute sopraggiungerà solo se si sarà capaci di scoprire la vera malattia e di porvi rimedio”. Noi, in questi due giorni, vogliamo verificare se nella “barca di Pietro” su cui siamo imbarcati ci sono delle falle.

Il Covid-19: forte con i deboli.

Sappiamo ancora poco della malattia: anche i medici e gli scienziati hanno più dubbi che certezze. Almeno una cosa però è stata accertata: il virus, vigliaccamente, colpisce duramente, spesso con effetti mortali, gli organismi più deboli. Il nostro problema è che la società italiana e la chiesa italiana prima che arrivasse il virus erano già in una condizione di debolezza, di grave prostrazione. Proviamo a inquadrare la situazione con cinque immagini.

  1. Siamo stati sorpresi dalla tempesta in mare aperto. È il dramma dell’uomo postmoderno: solo, una società liquida, con appartenenze deboli.

Da tempo sentiamo parlare di “post-moderno”, di “società liquida”: queste espressioni non sono astratte elucubrazioni, ma una fotografia un po’ dotta della realtà presente. Conosciamo bene per averlo studiato a scuola, quanto la Chiesa abbia fatto fatica ad accettare la modernità, intesa come il diventare maggiorenne dell’uomo (Kant), il suo diventare adulto (Bonoeffer). Per tre secoli, dal processo Galilei alla lotta antimodernista è stato tutto un giocare in difesa, fino al Concilio Vaticano II, quando finalmente si è preso atto che “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi sono anche le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nei loro cuori” (Gaudium et spes, 1).

Peccato che quasi immediatamente l’umanità – almeno la porzione nord-occidentale del mondo – sia entrata nella post-modernità: in un mondo orfano di orizzonti metafisici, di visioni globali della realtà, di orientamenti etici impegnativi e duraturi. Il concetto di post-modernità è vago e onnicomprensivo, ma, relativamente all’umanesimo cristiano mi piace presentare il postmoderno come un carro o un’auto con quattro ruote: pensiero debole, valori morali bassi, appartenenze incerte e brevi, religiosità vaga e soggettiva.

Se preferiamo l’immagine della società liquida, allora osserviamo che in questo mondo liquido l’uomo singolo ha preso in mano il timone del mondo: la soggettività diventa l’unica datrice di senso all’esserci nel mondo: il senso della vita lo decido io, conta quello che vale per me, finché vale! Il desiderio e la sua soddisfazione diventano gli unici principi di senso: basta un leggero calo ed ecco la depressione, la malattia del secolo. Noi siamo stati sorpresi dalla pandemia in alto mare, su una fragile barca, con in mano il timone, ma senza bussola né navigatore satellitare. E siamo ancora lì, a girare in tondo, in questo vortice infinito!

  1. Debilitati da una dieta poco varia. L’analfabetismo religioso e biblico.

Continuiamo a ripeterci che siamo in presenza di una crisi di fede dai contorni drammatici. È dal 2010, anno di pubblicazione del fortunato libro di Armando Matteo che sentiamo parlare di “prima generazione incredula”. Salvo poi scoprire che la prima generazione incredula era in realtà già la seconda e che nel frattempo ne è sopraggiunta una terza. È il grido di allarme dell’Evangelii gaudium al n. 70: “Negli ultimi anni si è prodotta una rottura nella trasmissione generazionale della fede cristiana nel popolo cattolico”. Per le nostre strade cammina un popolo di analfabeti e di analfabeti di ritorno. Non sarà che ci siamo alimentati per anni di soli sacramenti e questa dieta spirituale sbilanciata ci ha letteralmente fiaccati? Per troppo tempo abbiamo confuso la fede con la pratica religiosa, accontentandoci di questa. Ma come ha dichiarato in un’intervista del 22 marzo il Card. Hollerich, gesuita, arcivescovo di Lussemburgo e presidente delle Conferenze Episcopali Europee, “il consumo della religione non ci rende ancora donne e uomini di Dio. È l’ascolto della Parola, la sua meditazione nei nostri cuori che ci fa volgere verso Dio” (La Civiltà Cattolica, 4076).

Ricordiamo i tratti dell’incredulità denunciata da Armando Matteo: ignoranza biblica, scarsissima partecipazione alla formazione cristiana post-cresimale e notevole disinvoltura a disertare l’assemblea eucaristica domenicale. La conseguenza più preoccupante è il mancato passaggio da una fede bambina o devota ad una fede adulta. Secondo la prima, l’essere cristiani significa avere ricevuto i sacramenti dell’iniziazione cristiana, comportarsi bene a casa e a scuola, non dire parolacce, dire le preghiere, andare a Messa la domenica, per i più bravi recitare il rosario… La fede adulta è quella di chi ha capito che l’essere cristiani adulti è un modo originale di pensare la vita e il mondo, alla luce della Parola di Dio, conosciuta e interiorizzata, la consapevolezza che questa Parola può e deve illuminare tutti i momenti e gli aspetti della vita. La fede adulta è quella che prende sul serio la domanda di Theobald: “Di che cosa esattamente si fa questione, nella fede cristiana?”. L’avere fede ci orienta a vivere una vita diversa?

Per capire come si sia giunti a questo punto, non sarebbe male andare a rileggere il libro “Esperienze pastorali” di don Milani, pubblicato nel 1954, subito ritirato dal commercio per ordine del Santo Uffizio e riabilitato solo recentemente da Papa Francesco! Già allora l’analisi spietata, ma realistica di quel prete scomodo metteva in risalto il distacco tra fede e vita: “Quando ci si affanna a cercare di infilare la fede nei discorsi, si mostra di pensare che la fede sia qualcosa di aggiunto alla vita e non invece un modo di vivere e di pensare” (p. 238). Solo così possiamo rispondere all’appello ripetuto di Papa Francesco a “mettere il vangelo del Regno a disposizione di tutta l’umanità e di tutta la terra come risorsa di salvezza”.

  1. Non può dare frutto un terreno non più coltivato o inaridito o stanco.

Per un’analisi approfondita della situazione, nel libro “Urgenze pastorali” il teologo francese Christoph Theobald propone di usare il concetto di “esculturation”: siamo cioè in presenza di una “esculturazione del cristianesimo”: un evento ben più epocale del calo della pratica liturgica o dello scarso rispetto delle regole morali: “Diventate una minoranza, le Chiese dell’Europa occidentale offrono l’immagine di un gruppo non solo affaticato e diviso, ma soprattutto fuori dalla cultura del suo tempo: esculturato” (p. 14).

Alla radice del problema di fede c’è una questione di natura umana: dietro la mancanza di fede c’è la mancanza di un terreno umano propizio alla germinazione della fede. Come ha insegnato Gesù nella parabola del seminatore, non basta seminare buon seme: se il terreno non è adatto o pronto i frutti non arrivano. Il terreno in cui la fede può germinare, crescere e dare frutti è un mix di virtù cardinali e di capacità di riflettere, di fare silenzio, di analizzare criticamente la propria vita, di meditare sulla direzione di fondo della vita stessa. Come “preparare” questo terreno? È la prima domanda che dobbiamo porci sul piano educativo. Il terreno va “coltivato” e, come insegnava don Bussi, la parola che indica la coltivazione del terreno è la parola “cultura”, intesa come scasso del terreno in profondità. Senza questo lavoro in profondità, seminare è buttare il seme!

L’esculturazione può essere paragonata al terreno amazzonico, dopo il disboscamento: per alcuni anni garantisce una crescita rigogliosissima di soia o canna da zucchero, poi, quasi di colpo inaridisce e diventa praticamente deserto. Così, secondo alcuni sarebbe successo per il Sahara. Allo stesso modo, un terreno umano “esculturato”, a parte alcune oasi, è un deserto, irrimediabilmente impermeabile alla Parola e all’annuncio di salvezza.

Questa crisi – cito ancora Theobald – conduce “all’incapacità del cattolicesimo di procedere verso una rigenerazione dei suoi principi, richiesta dalla situazione culturale post-moderna o iper-moderna che gli sfugge sempre di più” (p. 29). La necessità di tornare al DNA del Cristianesimo è un richiamo costante di don Penna: una sorta di “ultima terapia” con cellule staminali.

Alcune scuole di pensiero sostengono che è un problema di volontà. No: la volontà è importante ma non basta. Nella vita umana e di fede, per raggiungere risultati alti e impegnativi, ci vogliono quelle attitudini che sono frutto di un lungo allenamento. Io posso avere un entusiasmo straordinario per la corsa e una volontà fermissima di arrivare, ma se non ho l’allenamento non posso portare a termine una maratona di 42 chilometri! I nostri giovani scontano drammaticamente la mancanza di “allenatori” capaci di far crescere la loro umanità. Sono capaci di grandi entusiasmi, alternati a cadute clamorose.

Nei casi migliori – ed è una situazione molto diffusa nei nostri ambienti – siamo in presenza di un terreno “stanco”, usurato da troppi anni di coltivazione intensiva: i laici migliori e più responsabili stanchi per i troppi impegni prolungati nel tempo, senza il tempo di “ricaricarsi”. La sapienza contadina insegna che se al terreno chiedi troppo e non lo “concimi” a dovere, questo smette di produrre. Ci sarebbe bisogno di riposo, di un anno sabbatico: cosa impossibile per almeno due categorie di persone: i parroci e genitori!

  1. Derubati anche dei nostri simboli

Prendo a prestito un ulteriore elemento di analisi dall’antropologia simbolica. Sul ruolo e l’importanza dei simboli è illuminante la lettura del libro di don Bruno Baratto di Treviso, docente di liturgia a Padova, “Slipping in the really real”. Studioso dell’antropologia simbolica di Clifford Geertz, analizza il ruolo dei simboli che sono gli elementi che ci fanno scivolare nel “really real”, nel reale al quadrato, in una realtà più importante della vita quotidiana. È questo il senso della celebrazione liturgica, capace di far “scivolare” chi vi partecipa con fede e consapevolezza addirittura nella comunione con Dio, che è la Realtà suprema.

Da tempo, prima negli ambienti della destra statunitense, poi in Brasile e da ultimo anche negli ambienti della destra italiana, c’è chi ha studiato il ruolo di questi simboli per sfruttarli a fini elettorali. Per esempio, per citare ancora Theobald, il cattolicesimo dell’Europa occidentale negli ultimi secoli, dal concilio di Trento in poi, avendo lasciato al mondo protestante il simbolo della Parola, si è retto su tre simboli: l’Ostia, la Vergine e il Papa (non a caso tre simboli in funzione anti-protestante, in un contesto di “guerra fredda di religione”!) (p. 16). La politica si è appropriata di questi simboli: pensiamo all’Eucarestia domenicale come rivendicazione politica, all’ostentazione del rosario, baciato in pubblico con un esibizionismo stomachevole anche in una educanda! Quanto al Papa, simbolo non facile da strumentalizzare, la tecnica di lotta è stata o il riferimento al Papa emerito o l’insulto dilagante sui social: eretico, anti-Cristo…

I simboli hanno una carica di energia incredibile, nel bene e nel male: parlano al cuore. Noi abbiamo disimparato ad usarli e non abbiamo saputo aggiornarli. Ci ha pensato qualcun altro!

 

  1. La parrocchia non basta più: aiuta a crescere, ma è sempre meno capace di seminare

In un contesto del genere, è sempre più evidente che la parrocchia non basta più: “La comunità cristiana continua ad essere maggiormente attrezzata per aiutare a crescere una fede già esistente anziché per consentire di nascere ad una fede ancora in gestazione” (D. Albarello). E non parliamo di annunciare il vangelo ai lontani!

Per renderci conto della crisi della parrocchia può essere utile, come fa Theobald, richiamare l’inchiesta svolta già 50 anni fa in Francia da Le Bras e Boulard, che avevano individuato 5 livelli di adesione alla Chiesa. Secondo me, ora, i livelli sono diventati almeno 6:

  • I “separati”; battezzati che hanno rotto ogni legame con essa.
  • I “conformisti stagionali”: in chiesa solo per i riti di passaggio (nascita, nozze, morte).
  • I “praticanti irregolari”: Natale, Pasqua, festa-processione patronale.
  • I “praticanti regolari”: a Messa quasi ogni domenica ma la vita è altra cosa.
  • I “devoti”: partecipazione regolare alla Messa e intensa vita di preghiera.
  • I “responsabili”, che hanno a cuore la vita della comunità e si spendono per essa.

Ognuna di queste categorie di persone necessita di una pastorale diversa. Ad esempio, i “separati” potranno essere avvicinati solo fuori dalla chiesa. Una Messa solenne o un rosario recitato con fervore alimentano la fede dei devoti, ma non dicono nulla a chi appartiene ai primi tre livelli, e non bastano ai responsabili che hanno bisogno di una formazione più sostanziosa. È evidente che una parrocchia, per di più con la carenza di personale che sperimentiamo in questo momento, non è in grado di offrire una risposta a tutte le domande. Eppure se siamo qui è perché Qualcuno ci ha chiamati ad annunciare la “buona notizia”: a tutte e sei queste categorie di persone.

Cosa fare lo studieremo insieme domani, avendo chiara però una cosa: il nostro compito di credenti è testimoniare a tutti che la fede cristiana è decisiva per la vita: non solo per la vita eterna, ma già per questa vita, nel nostro mondo. Noi dobbiamo continuare ad annunciare, per dirla con Armando Matteo che “Gesù è infinitamente contento di essere al mondo, di vivere la vita umana, di abitare questo meraviglioso pianeta, di condividere la fatica e la gioia di questo popolo… Gesù insomma ci sta. Ci sta a questo serissimo gioco che è la vita umana: non è mai distratto, non è mai astratto. Gesù vede, ascolta, è presente…” (Pastorale 4.0, p. 101).

Un Gesù così piace a tutti, qualunque sia il livello in cui si collocano. E forse, confessiamolo, piace ancora anche a noi.

Parte seconda: prospettive pastorali

 Premesse

Volendo esordire con un’immagine sportiva, oggi mi trovo a giocare “fuori casa”: se ieri, nella sintesi di libri e nell’analisi della situazione giocavo in casa, oggi che si ragiona di pastorale, a giocare in casa siete voi. Chi sa di calcio ricorda che un tempo, giocando fuori casa era consigliabile puntare al pareggio – fuor di metafora, non sbilanciarsi! – oggi con la regola dei tre punti bisogna puntare sempre alla vittoria. Col rischio di rimediare una sconfitta! Ma chi ha la passione per lo sport deve provarci.

“Immaginare il possibile” significa resistere alla duplice tentazione di mollare le vele o di rifugiarsi nel mondo dei sogni. Per trovare una via di fuga, prendo a prestito da Armando Matteo un’osservazione, elementare ma illuminante, attribuita ad Einstein: “Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare sempre le stesse cose”. Ce lo siamo ripetuti tante volte in questi anni e più ancora nei mesi di pandemia: qualcosa deve cambiare, nulla sarà più come prima.

Ci abbiamo già provato, sollecitati dall’Evangelii gaudium e dalle due Lettere pastorali del Vescovo Marco, in particolare la prima, un tentativo molto serio di calare le indicazioni di Papa Francesco nel concreto della nostra realtà diocesana. L’anno scorso poi era stato avviato un cammino biennale di approfondimento dell’Evangelii gaudium, letta in linea di continuità con la Gaudium et spes. Ma il Covid ha sparigliato tutte le carte e questo ci ha indotto a modificare i programmi. Per tornare all’immagine di ieri, la prima urgenza è uscire dal vortice e magari provare a risolvere alcuni dei problemi a monte del vortice che abbiamo segnalato. Usiamo questo tempo particolare per ripensare la nostra pastorale e magari immaginare qualcosa di nuovo. Come ha ripetuto tante volte il Papa, peggio di questa crisi sarebbe sprecarla. Per non sprecarla dobbiamo buttare lo sguardo in avanti: provare a immaginare le nostre assemblee liturgiche e le nostre comunità tra 20-50 anni. La prospettiva è angosciante. Allora guardiamo all’obiettivo ultimo e proviamo a confrontarci con esso.

L’obiettivo di fondo

Ce lo siamo ricordati ieri, alla fine della relazione: il fine della pastorale è sempre lo stesso: far sì che le persone si incontrino con Gesù: non con la Chiesa! Risentiamolo, dalle parole di Theobald: «La novità del cristianesimo si concentra sul tipo di relazione che Gesù di Nazareth intrattiene con coloro che incrociano il suo cammino» Lo stile relazionale del Nazareno inaugura un tipo di ospitalità assolutamente unico. Gesù concede infatti ad ogni tout-venant, cioè ad ogni interlocutore occasionale, di entrare nello spazio libero della sua prossimità benevola. Comunica ad ogni tout-venant quel «coraggio d’essere» che consente di trovare la propria maniera di abitare il mondo. Tuttavia, Gesù non lega a sé quanti hanno ricevuto da lui questi doni: il numero di coloro che sono entrati nell’orizzonte della sua ospitalità è molto maggiore rispetto al numero di coloro che sono diventati effettivamente discepoli. Oggi è ancora così: non tutti entrano nella cerchia di quanti vivono la sequela, ma tutti coloro che sono stati toccati dall’ospitalità del Nazareno tornano a vivere, nascono di nuovo, come Gesù stesso spiega a Nicodemo.

Le nostre parrocchie sono finalizzate a favorire questo incontro, ma ultimamente, anche per il pluralismo di cui abbiamo parlato ieri, fanno molta fatica a raggiungere lo scopo. I nostri interlocutori partono spesso da molto lontano e devono percorrere strade diverse. Proviamo solo a immaginare il percorso di fede di due bambini: uno che abbia visto nonni e genitori pregare e parlare di Bibbia; l’altro che arrivi al catechismo senza saper fare il segno della croce! Ma su questo torneremo tra poco. Continuiamo il nostro percorso: da considerazioni più generali verso il concreto.

La parrocchia dovrà evolversi.

Assodato che la parrocchia non basta più a raggiungere tutti [e non ci sono più preti a sufficienza per raggiungere tutte le parrocchie!], che ne facciamo? Vorrei suggerire la tesi-risposta di Comblin, nel suo libro Teologia della città, “la chiesa locale di domani si farà attraverso l’evoluzione delle parrocchie di oggi. Sopprimerle con un colpo di penna significherebbe sopprimere la Chiesa” (p. 414). Se è lecita una digressione filosofica, il concetto di evoluzione appare molto intrigante, perché consente di superare il dilemma insoluto di Hegel: la nuova sintesi è negazione-superamento di tutto quanto c’era prima o è conservazione-inveramento di tutto? In parole semplici: per realizzare qualcosa di nuovo dobbiamo buttare via tutto o conservare tutto? Il concetto di evoluzione indica un processo diverso, simile alla crescita di un essere vivente: c’è un nucleo essenziale e identitario che permane, nel cambiamento anche radicale e profondo. Così si è evoluto nei secoli il movimento dei discepoli di Gesù e così continuerà ad evolversi. L’evoluzione a volte è lenta e quasi impercettibile, a volte è così rapida che ci sorprende e ci sconcerta: ma succede così anche con i figli che crescono!

Tre tentazioni.

Assodato che è impossibile rimanere immobili in un mondo post-moderno o liquido che muta a ritmi vertiginosi, quale strategia scegliere? Mi piace lo schema proposto da Francesco Cosentino, in “Lievito nella pasta”. L’autore mette in guardia da tre tentazioni di fronte al post-moderno:

  • La tentazione del fariseismo, che consiste nel rinchiudersi nel proprio passato in preda alla paura, in un atteggiamento rigido e difensivo nei confronti del nuovo. In questo modo la Chiesa diventa una setta e si pone automaticamente fuori dalla società.
  • La tentazione del paganesimo: l’apertura incondizionata e acritica alla logica del mondo, fino a perdere la dimensione profetico-critica del vangelo. Ciò si traduce, praticamente, in una infinita negoziazione soprattutto col potere politico, al fine di ottenere o conservare posizioni di privilegio.
  • La tentazione della consolazione spiritualistica: essere presenti sotto forma di un’offerta di consolazione, nei momenti di fragilità e di bisogno. È la pastorale che si nutre di devozionismi emotivi, tesi a consolare, a coccolare, a incitare a fuggire dal mondo, verso una spiritualità evasiva.

Queste tre tentazioni hanno un elemento in comune: la rinuncia ad ogni tentativo di cambiare la realtà, il distacco tra vangelo e vita.

Una prospettiva: la vita di fede come compagnia e profezia

Superare queste tre tentazioni significa pensare la vita di fede come compagnia con gli uomini nel loro procedere nella storia e profezia del Regno. Questa scelta, assolutamente più evangelica (almeno secondo l’immagine di Gesù tratteggiata sopra), secondo Theobald, può essere declinata secondo due modalità diverse:

  • La strategia dell’accomodamento, ossia accettare la crisi come inevitabile, cercando di salvare delle piccole oasi di cristianità, un “piccolo resto”, ben formato, nella speranza che possa diventare testimone-profeta di uno stile di vita diverso. L’oasi è diversa dalla setta: è aperta a tutti, mentre la setta è chiusa a chi non ne fa parte.
  • La strategia del superamento, propria di chi, convinto che il cristianesimo abbia ancora un contributo importante da offrire agli uomini di oggi, in vista della soluzione degli immani problemi che essi sono chiamati ad affrontare, non si stanca di dialogare, di fare proposte, di scendere sul terreno del confronto sui problemi concreti.

Non possiamo, in questa sede, per limiti di tempo, seguire il teologo francese, che nel suo testo si dilunga nell’analisi delle implicanze di queste due scelte: due modi di “abitare lo spazio”, senza la presunzione di occuparlo. Possiamo osservare che nel magistero di Papa Francesco sono presenti entrambe le opzioni, forse con una predilezione per la seconda. Se nell’Evangelii gaudium troviamo pressanti inviti a testimoniare la gioia del vangelo, a riscoprire il ruolo delle famiglie credenti e dei piccoli gruppi in una logica missionaria (oasi di speranza in mezzo al mondo!), non possiamo dimenticare che l’unica sua enciclica, la Laudato sì, offre indicazioni chiarissime circa il compito dei credenti: testimoniare che a Gesù stanno a cuore i problemi concreti degli uomini e addirittura del creato. Se consideriamo il percorso della Querida Amazonia, riusciamo anche ad immaginare alcune suggestioni della Fratres omnes.

Opzioni pastorali

In una società complessa o poliedrica, l’unica pastorale possibile è una pastorale pluriforme. Se facciamo riferimento alle sei categorie di battezzati elencate ieri, è evidente che ognuna avrebbe bisogno di un approccio diverso, di un annuncio su misura. Può farlo un parroco da solo, magari con tre-quattro-cinque parrocchie? Evidentemente no [esempi]. Deve chiamare a raccolta e fare spazio a tutte le forze disponibili. E lasciar fare anche ad altri, senza considerarlo una invasione di campo. Quattro opzioni pastorali mi sembrano prioritarie. Ognuna di essa implica scelte molto concrete.

  1. Accettare serenamente il pluralismo

L’uniformità di scelte e comportamenti è impensabile e sarebbe comunque impossibile. È problematico anche un coordinamento, perché avrebbe bisogno di uno o parecchi “coordinatori” e finirebbe per scontrarsi con le diverse sensibilità e con metodi pastorali diversi, consolidati nel tempo. La strada immediatamente percorribile, anche se implica una “conversione” pastorale non facile e non indolore, è quella del dialogo, come teorizzato da Mons. Rossano. Il dialogo non ha come obiettivo di convincere l’altro, di portarlo sulle proprie posizioni e nemmeno solo di trovare il compromesso di un incontro a metà strada. Il vero dialogo è camminare verso una meta comune (per noi far sì che le persone si incontrino con Gesù!) percorrendo strade diverse, con autonomia e tranquillità, sapendo che c’è qualcuno che ha il compito di avvertirci e ci bloccarci se stiamo andando fuori strada (a livello diocesano è uno dei compiti del Vescovo e se il metodo sembra troppo autoritario ricordiamo che era il modo di intendere l’obbedienza di don Milani!). Si tratta di ascoltare seriamente l’invito di San Paolo: “Gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12,10). Voglio essere ancora più concreto questo cammino in avanti verso una meta comune non segue vie parallele, ma è a spirale. È inevitabile che spesso ci si incontri: possiamo o ignorarci a vicenda, o scontrarci, o tentare di farci lo sgambetto o scambiarci informazioni sul cammino e incoraggiarci a vicenda a camminare in avanti (è la tesi di Rossano sul dialogo interreligioso, della Dichiarazione sulla fratellanza umana di Abu Dhabi e, spero, della Fratres omnes). Concretamente serve un cambio di mentalità: se qualcuno, prete o laico, vicino a noi, magari nella nostra parrocchia porta avanti iniziative diverse dalle nostre, anziché vederlo come un “nemico” impariamo a considerarlo una risorsa: non uno che ci “ruba i clienti”, ma uno che forse – magari! – può raggiungere persone per noi irraggiungibili.

  1. Credenti costruttori di fraternità.

La sfida più ardua per le nostre comunità sarà lavorare non per la propria sopravvivenza, ma per la sopravvivenza del mondo. La diffusione del virus ha reso evidenti le fragilità del nostro stile di vita: i pericoli della globalizzazione e del consumismo, le avvisaglie dei disastri provocati dall’inquinamento e dai mutamenti climatici, a cui aggiungerei l’assurdità di spese folli per armamenti rivelatisi totalmente inefficaci contro un “nemico” invisibile che semina morte. Le nostre comunità, stimolate da Papa Francesco, che ha chiesto un anno di riflessione sulla Laudato sì non possono sottrarsi al dovere di sensibilizzarsi su questi temi e di collaborare con quanti cercano soluzioni ai problemi. Come ci ha insegnato Bonhoeffer, “La Chiesa è l’unica società che esiste anche per coloro che non ne fanno parte”: questa è la “Chiesa in uscita”, capace di gridare, a due voci, la gioia del vangelo e la preoccupazione per le sorti del mondo. Purtroppo da tempo abbiamo perso la capacità di far sentire la nostra voce sui grandi problemi del mondo e della storia: le migrazioni, la povertà, gli armamenti, i mutamenti climatici. Papa Francesco è spesso da solo su questi temi.

Potrebbe essere utile anche fare riferimento a Sennett (Costruire e abitare, 2018) e alla sua proposta di una nuova saggezza urbana che non è solo una maschera di cortesia nei rapporti interpersonali, ma è l’acquisizione di uno status di “cittadino competente”, capace di apertura collaborativa agli altri, capace di gestire la complessità cercando come primo passo una “fraternità moderata”, intesa come riconoscimento dell’altro da sé come «un estraneo con cui poter fare insieme qualcosa di produttivo». Vivere la fraternità e la prossimità è imparare a convivere tra diversi, senza “mordersi a vicenda” (Gal 5,13), anche all’interno della comunità cristiana.

Questo bisogno di saggezza nuova e di senso della vita può infatti incontrarsi con la proposta di vita di Gesù: una parola capace ancora di offrire spunti di riflessione e di dare senso al vivere, inserendosi nella sfera delle relazioni. Il “di più” che il cristianesimo ha da offrire è il modello di una fraternità eccedente, che rende desiderabile e buono il legame tra le persone. “Il cristianesimo spinge ad agire evangelicamente nel mondo a beneficio di tutti. Esige di immaginare una fede che non trovi nella comunità ecclesiale un nido protettivo in cui rifugiarsi o una cittadella fortificata in cui difendersi, ma una rete di relazioni che accompagni e abiliti a testimoniare la buona notizia del Dio di Gesù a chiunque, senza esclusioni” (Albarello, A misura d’uomo. La salvezza per la città, p. 137). Vivere la fraternità è già vangelo all’opera. Il vangelo del buon samaritano: ci abbiamo riflettuto su l’anno scorso! Concretamente le nostre comunità devono tornare ad esprimere posizioni politiche e invitare ad agire in coerenza col vangelo. Lo fa il Papa: possiamo farlo anche noi. A rischio di farci dei nemici.

  1. Passione per l’annuncio e per l’approfondimento.

Per crescere e fare frutti, le nostre comunità hanno bisogno di tre cose: di un seme buono, di un terreno ben coltivato e di aria ricca di ossigeno. Del terreno abbiamo parlato ieri. L’ossigeno è il dialogo come tratteggiato sopra. Il seme, come ci ha insegnato Gesù è la Parola. La fede, come ribadito da San Paolo, dipende dall’ascolto della Parola (Rm 10,17). Uno dei risvolti o delle sorprese di questo tempo di pandemia è certamente il moltiplicarsi di siti, occasioni di annuncio e ascolto della Parola. Molti di noi hanno beneficiato delle Messe e omelie di Papa Francesco a Santa Marta; qualcuno forse ha anche sottoscritto la richiesta di un prolungamento della diretta televisiva. Ma forse avrebbe creato saturazione. Non sarebbe male pensare ad una riproposizione dell’evento in tempi determinati dell’anno, magari nei tempi forti.

Ma chi frequenta i social sa che c’è davvero l’imbarazzo della scelta. Se si moltiplicano i siti è anche perché vengono “visitati”, quindi c’è ancora sete di Parola, che attinge ad altre fonti che non sono le omelie domenicali (anche perché, trattandosi in alcuni casi di specialisti, provvisti di mezzi, la concorrenza è spietata, quasi sleale!). C’è molta meno gente a Messa la domenica, ma molta più gente sui social ad ascoltare la Parola. Queste persone hanno ormai un palato fino: non si accontentano più di omelie rabberciate. Cercano la fonte migliore per soddisfare la sete di Parola!

Sulla scorta di Theobald, ma anche come incaricato dell’Apostolato biblico, vorrei suggerire due opzioni preferenziali, propedeutiche alla lettura dei testi: recuperare la tecnica della narrazione (a scuola, come insegnante di Religione ne ho sperimentato l’efficacia) e offrire spazi e occasioni qualificate di approfondimento. Nelle settimane del lockdown abbiamo sperimentato l’essenziale ruolo protettivo della famiglia, la riserva di senso delle relazioni, anche a distanza e l’aiuto della cultura profonda, frutto di lettura, studio e riflessione. Quanti, con un libro in mano si sono sentiti meno soli e più forti. Soprattutto se il libro era la Bibbia. Ma per leggere con profitto la Bibbia ci vuole formazione, ci vogliono guide, a tutti i livelli.

Certo quando parliamo di annuncio la mente corre subito al catechismo. Intanto, giustamente si è fermato, come ha fatto la scuola. La sua ripresa non potrà avvenire se non rispettando le regole della scuola. A mio parere, non casca il mondo a ritardare di un anno la Prima Comunione e la Cresima. Ma su questo le decisioni concrete spettano al Vescovo. A me preme ricordare un dato, messo drammaticamente in luce dalle ricerche di Armando Matteo: la scarsissima incidenza del catechismo ai fini della maturazione di una fede adulta. Forse allora è meglio puntare qualche energia in più sugli adulti e soprattutto sui giovani e sulla preparazione al matrimonio. Il 60% di unioni civili nel Nord Italia è un segnale di allarme fortissimo.

  1. Accettare la sfida dei giovani

Per finire, pensiamo un attimo ai giovani. I “devoti e i responsabili” sono una minoranza che non arriva al 10%. A tutti gli altri giovani i nostri modelli religiosi e le nostre celebrazioni non interessano più, non dicono più nulla! Mi spiego con una immagine. Sulla collina di Torino c’è vecchia cascina. Questa casa, cento anni fa era una meraviglia, una delle abitazioni più belle e ammirate: una delle prime in paese ad avere l’acqua corrente, grazie ad un pozzo artesiano, la prima ad essere riscaldata a termosifoni… Ora, a causa della mancata manutenzione, è un rudere-museo: l’acqua non è più potabile, i termosifoni sono scoppiati, gli infissi cadenti. Un’anziana signora continua a viverci, almeno nei mesi estivi. Ma nessun giovane abiterebbe in un ambiente simile! Ho la sensazione che le nostre parrocchie, le nostre comunità, le nostre celebrazioni liturgiche agli occhi dei giovani siano come quella casa: un ambiente da “visitare” con curiosità ma non certo un luogo in cui vivere! Per alcuni decenni ci sarà ancora bisogno della pastorale tradizionale (finché saranno vive persone che tornano volentieri nella vecchia casa!), magari con qualche intervento serio di ristrutturazione. Contemporaneamente però qualcuno dovrà farsi carico delle giovani generazioni. Con tutta la libertà del caso. Noi dovremo fare un reale passo indietro e lasciare che i giovani abbattano dalle fondamenta alcune nostre costruzioni cadenti per edificare sulla pietra angolare (Cristo, non la Chiesa! Non le nostre parrocchie, i nostri incontri, le nostre celebrazioni!) abitazioni a loro gusto e misura, con criteri edilizi radicalmente nuovi, con stili e priorità diverse dalle nostre, che noi non possiamo neppure immaginare e che certamente faremo fatica a capire. Chi come me ha vissuto la stagione di inizio dei campi scuola, ricorda bene le polemiche feroci: tanti non capivano i “preti in jeans” e la novità dei campi misti… Questi campi hanno formato due generazioni. Ora hanno perso molta della loro carica. Verranno esperienze pastorali nuove. Io spero di poter vedere ancora forme nuove che non riesco nemmeno ad immaginare. Credere che tutto questo è possibile è fare credito all’azione dello Spirito, è credere che Lui opera ancora oggi, è credere alla perenne fecondità del Vangelo. È credere, con Isaia, che i pensieri di Dio superano infinitamente i nostri pensieri, anche se siamo uomini di Chiesa.

Conclusione

Una semplice citazione di Honoré de Balzac: “Gli eventi come il Covid non sono mai neutri: i loro effetti dipendono dagli individui. La sventura è un abisso per i deboli, un’occasione per arricchirsi per l’uomo abile e privo di scrupoli, una piscina di purificazione per il cristiano, un marciapiede (noi oggi diremmo un’autostrada) per il genio e per il santo”. In termini biblici si tratta di un kairòs, di un evento di grazia. Sarà tale per noi il Covid?

Riferimenti bibliografici

  • Articoli della Civiltà Cattolica
  • “Urgenze pastorali” di Theobald
  • “Lievito nella pasta” di Cosentino
  • “La prima generazione incredula” di Armando Matteo
  • “Tutti giovani, nessun giovane” di Armando Matteo
  • “Pastorale 4.0” di Armando Matteo
  • “I giorni del nemico” di Giuliano Zanchi
  • “Non è una parentesi” di Derio Olivero e Altri
  • “Pastori” di Paolo Curtaz
  • “Slipping in the really real” di Clifford Geertz, a cura di Bruno Baratto
  • “A misura d’uomo” di Duilio Albarello
  • “Costruire e abitare” di Richard Sennett

Intervento finale di Mons. Vescovo

“Immaginare il possibile” è il tema che abbiamo dato alla nostra due giorni di inizio anno pastorale, aiutati dalle due relazioni di Battista Galvagno e dai lavori di gruppo vissuti insieme.

E’ ripetitivo dire che quest’anno segna una svolta rispetto al passato e che più che ripartire dobbiamo ripensare la nostra realtà sociale ed ecclesiale.

La pandemia ha messo a nudo le nostre fragilità e ci ha costretti a rivedere il nostro modo di essere e i nostri stili pastorali.

Vorrei offrirvi due citazioni di Papa Francesco che a mio avviso possono sintetizzare quanto abbiamo condiviso in questo tempo:

“Se una presenza impalpabile è stata in grado di scompaginare e ribaltare le priorità e le apparentemente inamovibili agende globali che tanto soffocano e devastano le nostre comunità e nostra sorella terra – sono parole di Papa Francesco – non temiamo che sia la presenza del Risorto a tracciare il nostro percorso, ad aprire orizzonti e a darci il coraggio di vivere questo momento storico e singolare” (Francesco, 31 maggio 2020).

Ma il Papa ci aiuta anche a guardare al futuro con Speranza.

In occasione di un’Assemblea Generale CEI di qualche anno fa, ed è la seconda citazione, ricordava, a noi vescovi, che il rinnovamento della nostra pastorale richiede un respiro e un passo sinodale: “Camminare insieme è la via costitutiva della Chiesa; la cifra che ci permette di interpretare la realtà con gli occhi e il cuore di Dio; la condizione per seguire il Signore Gesù ed essere servi della vita in questo tempo ferito” (Francesco, 22 maggio 2017).

Tenendo conto delle relazioni, dei nostri interventi e di queste citazioni di Papa Francesco vorrei offrirvi alcune considerazioni, consegnare alcuni orientamenti e darvi alcune informazioni.

Considerazioni:

Il nostro presbiterio si sta assottigliando, coloro che sono tornati alla casa del Padre in questi ultimi dieci anni (2010 – 2020) sono 52 a fronte di dieci nuove ordinazioni, e solo quest’anno sono già 8 i defunti, molti di noi sono anziani e alcuni malati.

Nell’enunciare questa situazione oggettiva vorrei però esprimere un sincero ringraziamento a tutto il presbiterio per come si spende quotidianamente e per come ha saputo rimanere vicino alla gente durante il tempo della chiusura di tutto a causa della pandemia.

Io credo che abbiamo la capacità di continuare la nostra missione di annunciatori del Vangelo nella nostra terra evitando di chiuderci in noi stessi ma valorizzando tutte le risorse umane e spirituali che ci circondano a partire dai laici che devono essere sempre più responsabili nella vita delle nostre comunità parrocchiali: se da soli rischiamo di non farcela insieme a loro ce la possiamo fare!

La pandemia ha contribuito a creare un clima pesante, un po’ grigio e questo si è diffuso al nostro interno.

Vorrei prendere a prestito il tema della prossima giornata mondiale missionaria che è : “Tessitori di fraternità” per dire a tutti facciamolo nostro, diventiamo tessitori di fraternità sacerdotale, cerchiamo di volerci più bene, evitiamo il chiacchiericcio e il pettegolezzo che sono più pericolosi del virus, come ha detto Papa Francesco, facilitiamo momenti di comunione, usciamo dalla logica del sospetto, dell’invidia e del giudizio aprioristico e non giudichiamo addirittura le intenzioni che stanno dietro le azioni degli altri. In una parola: vogliamoci bene! solo così saremo credibili agli occhi della nostra gente.

Recupero un’espressione di Battista: “Vivere la fraternità è già Vangelo all’opera”.

La prossima enciclica di Papa Francesco, che firmerà fra qualche giorno ad Assisi, dal titolo “Fratelli tutti”, credo che ci inviterà a questo cammino di conversione.

 

Orientamenti:

Sovente, giustamente, molti di voi chiedono alla Diocesi e al Vescovo indicazioni, specialmente quest’anno.

Abbiamo cercato di accompagnare le parrocchie in questi mesi informandole tempestivamente ogni volta che vi erano novità rispetto ai comportamenti e alle scelte da fare, tenendo conto delle disposizioni governative, della CEI e della CEP.

Abbiamo scelto di distribuire la quasi totalità del contributo straordinario della CEI provvidenzialmente giunto a fine aprile alle parrocchie in quanto correvano il rischio di trovarsi in serie difficoltà economiche.

Sul versante pastorale vorrei consegnarvi alcuni orientamenti che in parte già trovate nelle mie due lettere pastorali, in particolare la prima che vorrei sintetizzare come segue

  1. Intensificare la formazione dei laici a livello di unità pastorali o vicarie, approfittando dell’offerta formativa dei vari uffici. Nel contempo chiamiamo a raccolta le persone già formate, per esempio all’ISSR di Fossano, affidando loro delle responsabilità;
  2. Incrementare gruppi biblici nelle parrocchie, up e nelle case, lasciandosi accompagnare dal servizio diocesano dell’apostolato biblico;
  3. Valorizzare la S. Messa domenicale, seguendo le indicazioni della lettera pastorale, e invitando soprattutto le famiglie a tornare coi propri figli alla Messa dicendo loro che questo è parte integrante del cammino di catechesi per i sacramenti dell’iniziazione cristiana;
  4. Valorizzare le famiglie come “chiesa domestica” capitalizzando quanto vissuto durante il tempo del look down;
  5. I giovani tornino ad essere protagonisti nelle nostre comunità favorendo un dialogo intergenerazionale, accanto e in soccorso a quanti già sono impegnati a vario titolo in tanti settori. Diamo spazio ai giovani e come ci ha detto Battista: “facciamo un reale passo indietro e lasciamo che i giovani abbattano dalle fondamenta alcune nostre costruzioni cadenti per edificare sulla pietra angolare che è Cristo!”. Cerchiamo modalità e iniziative nuove che vadano incontro soprattutto ai giovani in ricerca;
  6. L’accompagnamento e il discernimento rimangono le vie privilegiate anche per un risvolto vocazionale. Sono contento che la pastorale giovanile e vocazionale diocesana stia lavorando in questa linea;
  7. Un’ occasione unica e preziosa di incontrare i giovani, molti dei quali dopo la cresima non si sono più visti, sono i cammini in preparazione al sacramento del matrimonio, a questo proposito con l’ufficio per la pastorale della famiglia stiamo elaborando alcuni orientamenti che presenteremo al prossimo consiglio presbiterale per una valutazione sinodale;
  8. Per il catechismo e la ripresa delle attività dell’oratorio si tenga conto della lettera che è stata inviata recentemente.
  9. La Carità, intesa in tutte le sue sfaccettature: caritas, migranti, ammalati, disoccupati ecc…rimane una priorità assoluta!Due sono le emergenze di cui ci siamo occupati: la chiusura dello stabilimento della Miroglio a Govone. Con la collaborazione di Piero Reggio, responsabile della pastorale sociale e del lavoro, abbiamo cercato di dare il nostro contributo, incontrando le parti, cercando di arrivare ad una soluzione che potesse salvare i 151 operai che dall’oggi al domani si sono trovati senza lavoro.La Caritas attraverso il suo braccio operativo che è il CPA di via Pola ha messo a disposizione il dormitorio e uno spazio per piazzare delle tende e offrire con la mensa la cena a circa 90 persone, tutto questo lo ha ben documentato Gazzetta d’Alba la scorsa settimana.La caritas diocesana con i servizi del cpa non può soddisfare tutto il fabbisogno. Il centro di via Pola costa al CPA oltre duecentomila euro l’anno e gran parte del finanziamento deriva dai fondi Caritas dell’8Xmille.
  10. Detto questo confermo la disponibilità della diocesi a collaborare con le istituzione preposte per aiutare queste persone immigrate e che lavorano sul nostro territorio.
  11. Io vorrei fare un appello al comune affinchè in collaborazione con i servizi sociali e anche la Caritas possa formulare un progetto per dare ospitalità a questi lavoratori, di cui c’è bisogno sul nostro territorio tutto l’anno, da affiancare a quello della caritas per affrontare emergenze come questa ma anche in previsione del prossimo inverno che è alle porte.
  12. L’altra emergenza è di questi giorni. Si tratta degli africani giunti nell’albese in sostituzione dei macedoni e persone dell’est europeo, per la vendemmia. Improvvisamente Alba si è trovata con una quarantina di africani che non sapevano dove trovare rifugio per la notte, mettendo in allarme il comune, i servizi sociali e le forze dell’ordine.
  13. In tutto questo tempo la carità non si è mai fermata! E’ importante che sotto la regia della caritas diocesana ogni vicaria o unità pastorale rinvigorisca la propria caritas evitando personalismi ma mettendosi in rete, puntando soprattutto ad educare alla carità affinchè diventi uno stile di vita di tutti i battezzati e non qualcosa da delegare a qualcuno come addetto ai lavori. Ringrazio tutti i volontari di questo vasto settore che ogni giorno si impegnano a servizio dei poveri.

Informazioni:

Vorrei darvi alcune informazioni che riguardano la vita della nostra diocesi:

  1. Il nuovo messale dovrebbe arrivare nelle prossime settimane e vi sarà consegnato al prossimo incontro del clero di novembre con d. Marco Gallo.
  2. La CEP ha deciso che si inizierà ad utilizzarlo a partire dalla Prima Domenica di Avvento.
  3. Altavilla.Per far fronte a questa spesa la Diocesi ha acceso un mutuo ventennale di circa un milione di euro e il resto si spera in qualche aiuto dalle Fondazioni o da privati.Ho deciso di invitare le parrocchie, se possibile, di destinare le offerte raccolte in occasione della celebrazione dei sacramenti della cresima e della prima comunione per i lavori di Altavilla, come piccolo segno di partecipazione. Questi lavori si sono resi necessari e improcrastinabili per poter avere tutte le certificazioni necessarie a mantenere la casa in funzione: pena la chiusura della stessa! Nei prossimi giorni inizieranno dei lavori importanti presso la Casa diocesana di Altavilla. Si tratta di un intervento molto oneroso che comporta una parte di ristrutturazione relativa alla Mater Dei e soprattutto un intervento alle solette che non sono a norma per l’antincendio e il rifacimento degli impianti per un importo di circa un milione e trecentomila euro.

 

Conclusioni

Carissimi sacerdoti e diaconi grazie per l’ascolto, vi auguro di vivere questo anno con serenità e con attenzione a tutto quello che avverrà, senza affanno puntando su ciò che è essenziale senza lasciarci prendere dal fare, ma piuttosto dall’essere. Grazie.

 

Alba 30 settembre 2020

San Girolamo                                                                                                         +Marco, Vescovo